Riflessione filosofica su una aspetto della didattica scolastica che non viene preso in considerazione
Stamattina riflettevo su una aspetto della didattica scolastica che non viene assolutamente preso in considerazione. Quando studiamo i componimenti di un poeta, ci soffermiamo solo sull’analisi del testo. In realtà, bisognerebbe soffermarsi sulle motivazioni che hanno fatto sì che quel testo vedesse la luce.
Mi spiego. Spesso gli autori più celebri (Dante, Leopardi, ecc.) hanno vissuto una vita non vita, a tal punto da rifugiarsi completamente nel loro mondo fatto di parole.
C’è chi ero gobbo, chi era balbuziente, chi non aveva amici, chi veniva trattato di EMME, e chi più ne ha più ne metta.
Allora, a scuola, bisognerebbe insegnare due cose: a non far sentire alienati le persone come Dante e Leopardi, e ad insegnare alle nuove generazioni a non ghettizzare nessuno. L’analisi del testo è solo un piccolo aspetto.
Che un ragazzo/a di 15 anni sappia tradurre il lessico italiano di 3-400 anni fa, e poi tratti di EMME i suoi coetanei è un fallimento. La scuola dovrebbe innanzitutto essere in grado di insegnare le basi della convivenza civile, del rispetto, dell’amore, ecc.
Ovviamente prima la famiglia, ma la scuola dovrebbe contribuire. Invece non fa assolutamente nulla. Quindi uno sa le poesie a memoria, sa anche spiegare il significato di ogni singola parola, ma non riflette sul fatto che se uno ha scritto quelle cose è perché ha “sprecato” gran parte della giornata (che poteva essere vissuta in un altro modo) a mettere delle parole su un foglio. Avremmo perso le parole di Dante e Leopardi? Sì, ma due persone avrebbero vissuto una vita vera.